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The Money and Finance Research (Mo.Fi.R.) group was established in 2007 on the initiative of Pietro Alessandrini, Michele Fratianni and Alberto Zazzaro. The aim of the group is investigating, from both the empirical and theoretical points of view, the evolution of the financial system as the collection of financial institutions, intermediaries and markets and understanding the real consequences of that evolution for the development of the economic system at the regional, national and international levels. This mission is fulfilled through a variety of activities, including sponsored research, seminars, conferences carried out by a bulk of economists from the Department of Economics of the Università Politecnica delle Marche in cooperation with researchers from other universities, post-doc research fellows, PhD students and graduate students.

mercoledì 3 novembre 2010

Gli USA, la Cina e le regole del gioco

E’ iniziata la guerra delle monete, conseguenza naturale dell’incapacità del sistema monetario internazionale di correggere i grandi squilibri di bilancia dei pagamenti.  Il dollar standard è in crisi. Esso ha permesso agli Stati Uniti di spendere in eccesso rispetto a quanto produce. Da anni gli USA accusano un enorme deficit di conto corrente di bilancia dei pagamenti, che ha alimentato un debito netto sull’estero che, a fine 2009, ha raggiunto $2.738 miliardi. La Cina è il rovescio della medaglia: ha accumulato grandi surplus di conto corrente che hanno alimentato  uno stock di riserve internazionali di $2.706 miliardi, ammontare pari al debito estero americano. Le autorità cinesi mantengono un renminbi sottovalutato nei confronti del dollaro, tassello essenziale della loro politica industriale. La Cina corre però due  grossi rischi. Il primo è che le proprie riserve in dollari si deprezzino rispetto ad altre monete. Questo rischio viene ridotto attraverso vendite di dollari per acquistare euro, con la conseguenza che l’euro si apprezza nei mercati valutari, anche se il conto corrente di Eurolandia è in pareggio. In altre parole, i guai americano-cinesi si scaricano sul vecchio continente. Il secondo rischio è lo spettro del protezionismo. Il governo americano, spalleggiato dal Congresso, minaccia ritorsioni commerciali se la Cina non rivaluterà il renminbi.  Come uscirne? Ci sono quattro possibili soluzioni.


La prima è la flessibilità dei tassi di cambio, lasciando ai mercati valutari il compito di trovare per essi valori di equilibrio. In questo scenario, il dollaro dovrebbe deprezzarsi massicciamente rispetto al renminbi, mentre la Cina continuerebbe a diversificare la composizione valutaria delle sue riserve internazionali. L’euro sarebbe destinato a rivalutarsi e la geografia del settore industriale mondiale cambierebbe a svantaggio del vecchio continente e a vantaggio del nuovo.  La seconda soluzione è di imporre una tassa sugli squilibri di conto corrente. La debolezza di tale proposta è che, in aggiunta alla difficoltà di sottoscrivere un tale accordo, tale tassa si tramuterebbe in una specie di Tobin tax sui flussi lordi dei movimenti di capitale, già osteggiata in sede internazionale.  In aggiunta, bisognerebbe decidere chi dovrebbe imporla e come spenderla. La terza  soluzione è che i paesi aderiscano ad una vecchia regola del gioco: in presenza di una economia mondiale stagnante, i paesi eccedentari dovrebbero sostenere la domanda mondiale, mentre in presenza di inflazione mondiale i paesi in deficit dovrebbero ridurre la domanda. Con questa regola gli aggiustamenti esterni verrebbero corretti senza rilevanti variazioni dei tassi di cambio. Nella depressione mondiale attuale la Cina dovrebbe assumersi il ruolo di locomotiva, aumentando le proprie importazioni. Con il vantaggio di allentare le pressioni internazionali per una rivalutazione del renminbi. Ma la Cina è purtroppo riluttante ad accollarsi tale responsabilità. La  quarta soluzione va alla radice della fragilità del sistema monetario internazionale. In mancanza di una moneta dominante in grado di sostituire il dollaro, è tempo di fare un salto di qualità verso la graduale introduzione di una moneta sovranazionale. Abbiamo sostenuto questa proposta lo scorso anno (Il Sole 24Ore, 26 marzo 2009), ritenendo che dopo la crisi finanziaria ci sarebbe stata una crisi valutaria. Come si sta verificando.  La Cina aveva allora espresso il desiderio di  sostituire il dollaro con una moneta sovranazionale, dichiarandosi in favore del rilancio dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP). Questa proposta fu recepita dal G20 nell’aprile 2009 a Londra. Misura che si è rivelata inadeguata e insufficiente. I DSP (i) non sono moneta sovranazionale, ma soltanto una partita di giro per utilizzare, sotto certe condizioni, le monete nazionali dominanti, (ii) sono distribuiti in maniera arbitraria rispetto alla realtà degli squilibri esterni e (iii) non hanno avuto successo in passato. Una vera moneta sovranazionale deve nascere da un accordo cooperativo tra paesi che esprimono le monete dominanti. Si può creare con un paniere asset-backed costituito da  dollari, euro, yen e non ultimo renminbi, per poi attivare presso il FMI un sistema di compensazione multilaterale dei pagamenti a saldo tra banche centrali denominati nella nuova moneta sovranazionale. La soluzione è, in forma aggiornata (senza l’oro), la stessa del piano Keynes bocciato dagli americani a Bretton Woods nel 1944. L’attuale debolezza del dollaro impone un atto di responsabilità dei paesi leader a favore di una gestione monetaria sovranazionale. La sovranazionalità della regolamentazione dei mercati finanziari è stata posta all’ordine del giorno dalla crisi finanziaria. Il concreto rischio di guerre valutarie la impongono anche per il sistema monetario internazionale.  

Pietro Alessandrini e Michele Fratianni

Apparso sul Il Corriere della Sera, 25 ottobre 2010 con il titolo “L’Exit strategy? Una Moneta globale e su La Regione Ticono, 2 novembre 2010 con il titolo “Una moneta mondiale per evitare la guerra dei cambi”.

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